Una pandemia di immagini

Articolo a cura di Silvia Castelli, Psicologa e Psicoterapeuta ed Elena Tsoutsis, Psicologa Clinica ad orientamento psicodinamico

Nel lavoro esposto si è cercato di porre in relazione l’esperienza da tutti noi vissuta durante la pandemia da COVID-19 con le paure consce e inconsce e i vissuti emotivi interni, confluiti e poi manifestati spesso in immagini, oniriche e coscienti.

Lo scopo era proprio quello di condividere uno spaccato di ciò che è emerso degli incontri con i pazienti, per meglio esplorare il fil rouge che collega immagini dai delicati confini; immagini di un tempo passato conosciuto, di un tempo presente disorientante e quelle di un tempo futuro apparentemente inconcepibile, impensabile.

Vengono così offerti piccoli scorci sui paesaggi descritti dei pazienti, in cui si intersecano strade, percorsi, elementi naturali e animali; tutti simboli preziosi nei loro significati e fondamentali nel prendersi cura del proprio dolore, non solo per lenirlo, ma anche per darvi un senso.

LA CATASTROFE E LA NASCITA DI UN NUOVO LINGUAGGIO IMMAGINIFICO

Possiamo ormai collocare a quasi tre anni fa, nel febbraio 2020, l’inizio della pandemia in Italia.
In quel momento qualcosa di lontano ha iniziato a riguardarci da vicino.

Sono cadute le barriere nazionali ed è diventata una questione mondiale, non più dell’Altro da sé. Questo ha portato a un cambiamento profondo nella nostra quotidianità e nei nostri vissuti relazionali ed emotivi. Per descriverlo, potremmo prendere in prestito l’espressione di Bion ‘il cambiamento catastrofico’, che rimanda a un violento impatto sull’organizzazione di un sistema così com’era costituito in origine, portando gli individui a esperire una turbolenza emotiva data da un fatto nuovo e negativo che irrompe nella propria vita.

Un tale sconvolgimento, come sempre accade a seguito di eventi di così vasta portata come la recente pandemia, genera purtroppo una reale perdita dei significati. Perciò si rende assolutamente essenziale (ri)pensare a un nuovo linguaggio, a una nuova sintassi, che possa permetterci di comunicare meglio con noi stessi, con gli altri e, nel nostro caso, con i nostri pazienti, per parlare di qualcosa di cui non si riesce a parlare e per riuscire a decifrare in senso simbolico e non letterale gli avvenimenti di cui siamo stati protagonisti e che ci hanno portato via quasi ogni certezza.

La ricerca di un nuovo linguaggio è, in siffatte circostanze, quasi un dovere che ha come obiettivo quello di ridare voce alla grande quantità di individui che, come gli uomini nella grotta di Platone, è rimasta immobilizzata dalla paura e forse al tempo stesso incuriosita dalla realtà là fuori divenuta indecifrabile, irriconoscibile, proprio come le ombre proiettate dal sole sulla parete della grotta. Per non rischiare di assumere che la vita proiettata su quella parete sia l’unica visione possibile dell’unico mondo possibile in cui credere di poter abitare, è quindi importante ricostruire nuovi significati condivisi. Per riuscirci, è necessario abbandonare posizioni polarizzate tra ragione e fede, scienza e spiritualità, bisogni individuali e collettivi, per cercare proprio fra questi opposti un ponte, un’occasione di incontro nello scontro utile a ricreare un linguaggio che leghi anziché separare, avvicinandosi così a una possibile sintesi di due parti del mondo per l’uomo apparentemente inconciliabili.

L’argomento in sé e l’obiettivo qui perseguito sono quindi in un certo senso particolari, necessari e forse anche audaci e questo rende il tutto speciale.

Il nuovo linguaggio potrebbe essere fatto di immagini. Ma l’immagine cos’è? Non è un residuo percettivo, né una debole traccia derivata da qualche senso; non sono immagini a posteriori, né una qualche brutta copia della realtà. L’immagine è rappresentazione, è un punto di vista sul mondo, qualcosa di spontaneo, di primordiale, di dato dalla psiche stessa. Essa è tanto espressione dei contenuti inconsci quanto di quelli consci. Di conseguenza, come ci spiega Jung, la sua interpretazione, nel suo significato più profondo, non può mai partire né dalla sola coscienza né dal solo inconscio, ma soltanto dal loro reciproco rapporto.

L’inconscio ribolle spesso di immagini veramente eloquenti circa il nostro vivere, ma purtroppo spesso non le sappiamo leggere e finiamo così per non avvalerci del loro potere trasformativo. Invece, quando l’immagine viene compresa, essa diviene una guida preziosa; Hillman afferma infatti che «Le nostre immagini sono i nostri custodi, così come noi lo siamo di loro» (Hillman, 2021). Al contrario, senza immagini la coscienza non si amplia, la prospettiva immaginativa stessa si restringe e si inaridisce, mentre a rinforzarsi è soltanto il letteralismo dell’Io. Jung, a questo proposito, nel Libro Rosso scrive che «la ricchezza dellanima è fatta di immagini» e che «saggio è nutrire lanima (di immagini) per non allevarvi draghi e diavoli».

Il potere curativo dell’immagine è reso possibile proprio grazie al loro passaggio nel regno intermedio della psiche, nel quale non si interpreta semplicemente l’immagine, ma con essa si dialoga; non ci si chiede cosa significhi specificamente, bensì cosa essa da noi voglia. Questo tipo di processo di guarigione per mezzo del lavoro con le immagini dipende perciò da un processo narrativo, che (ri)dona senso ai nostri vissuti.  L’immagine riesce così a raccontare anche ciò che è indicibile, poiché i simboli consentono la narrazione pur rimanendo nel silenzio.

La psicoterapia è appunto una vera e propria attività narrativa che stimola processi immaginativi, insegnando a sentire e a percepire la propria vita e non soltanto a pensarla. In tal modo, la psicoterapia restituisce vita all’immaginazione come luogo dove si può essere, come un modo dell’essere (Hillman, 2021). Questo significa anche ‘fare anima’: rivolgersi alle immagini, riconoscerle, distinguerle e comunicare anche con i demoni che le albergano; demoni che sono però anche guardiani. Tutto questo perché il proprio crollo stia a rappresentare il simbolo della propria guarigione così come della propria ripresa.

È quindi importante prendersi cura di questi processi immaginali; l’uomo dovrebbe anzi, come suo compito, mettersi in un certo senso al servizio delle immagini; compito che invece oggi sembrerebbe largamente trascurato. A tal proposito, Jung scriveva: «Misi ogni cura nel cercare di intendere tutte le immagini […] e, soprattutto, di attuarle nella vita. Ciò è quanto di solito trascuriamo di fare. Lasciamo sorgere le immagini, e forse ce ne sorprendiamo, ma questo è tutto: non ci diamo la pena di capirle, ne traiamo solo delle conclusioni morali […]. È un grande errore anche ritenere che sia sufficiente raggiungere una certa comprensione delle immagini […]. La conoscenza (deve) convertirsi in un obbligo morale […]. Grande è la responsabilità umana verso le immagini dellinconscio».

Come ci spiega Jung, poi, l’incontro con l’immagine è incontro con la nostra anima. Egli infatti scrive che «ogni accadimento psichico è un’immagine e un immaginare» e che «queste immagini sono reali come tu stesso sei reale» (Jung, 2012). A questo conduce una psicologia archetipica: al saper riconoscere le immagini e il loro continuo operare in tutte le nostre realtà.

LE IMMAGINI DELLA PANDEMIA

Arrivati a questo punto, ci piacerebbe perciò raccontarli, questi elementi che fortemente hanno accomunato le storie cliniche dei pazienti ascoltati in un periodo tanto difficile come quello scandito dai ritmi della pandemia. Siamo consapevoli di quanto sintetizzare questo materiale esistenziale sia di per sé un atto riduttivo, ma facciamo ugualmente questo tentativo con l’intento di tenere traccia e memoria di significati che rientrano in matrici del sentire comuni, che possono consentirci di fare ordine in una matassa di pensieri apparentemente caotica e sfilacciata. Un altro motivo è poi quello di interessare e condividere riflessioni con altri professionisti che hanno praticato la professione clinica negli anni della pandemia.

La situazione che stiamo tuttora vivendo è infatti qualcosa di veramente atipico e unico: siamo dentro a quello che è diventato un trauma collettivo, che si sta protraendo nel tempo. E per questo abbiamo bisogno di più aiuti possibili.

In questo periodo sono cadute anche le apparenti e fittizie barriere tra terapeuti e pazienti, vedendoci tutti naviganti nello stesso mare. Se i sentimenti di incertezza e disequilibrio sono potenti in infanzia e in adolescenza, con la pandemia sono divenuti una pesante realtà per tutti, anche per gli addetti ai lavori. Perchè trovarsi a fare i conti con l’enigma, l’ignoto, il non conosciuto, spaventa e fa anche arrabbiare, perché ci pone davanti alle nostre inevitabili fragilità, individuali e collettive.

Proveremo quindi a far luce su alcune tematiche comuni emerse nel lavoro con bambini, adolescenti, giovani adulti e famiglie.

Nelle narrazioni del “mi sento” ritroviamo frequentemente immagini comuni, che descrivono i tratti del trauma presente. C’è chi nomina immagini che richiamano il terrore di perdere il controllo e di andare incontro all’ignoto, o esserne già in balìa, come zattere disperse in mezzo al mare, o di trovarsi di fronte a mura apparentemente insormontabili, oltre le quali non è possibile vedere. La sensazione dilaniante è l’impotenza e il sentirsi indifesi e piccoli di fronte a qualcosa di più potente.

Altre persone ancora si sentono come dentro a una bolla, a un involucro che separa e isola, che protegge e soffoca allo stesso tempo, che nasconde e rinchiude.

Abbiamo così sensazioni ambivalenti, che fluttuano tra un senso di sicurezza e uno di soffocamento, tra la difesa e la prigionia, il desiderio di stare e la spinta a fuggire, tra il desiderio di preservare e l’impulso di distruggere.

C’è poi chi invece riporta immagini che rievocano la caduta, o il momento appena prima dello schianto; vengono infatti riportate scene raffiguranti burroni e dirupi, che si affacciano su profondità ignote e indefinite, sconosciute. In esse si percepisce la tensione, la curiosità rispetto al salto, quell’ambivalenza tra terrore e desiderio. E in alcuni di questi casi il salto è stata l’unica possibilità, portatrice poi di cambiamento, rinascita, scoperta di nuove parti di sé.

Sulla scia di cadute e profondità sono spesso emersi anche immagini di pozzi: neri, profondi, apparentemente senza fondo. Un’oscurità che spaventa e una caduta che fa male, ma che almeno dà forma, che non lascia nel sospeso, che fa sentire la matericità e il dolore della caduta. Da questo dolore, da questi lividi emotivi è poi possibile rialzarsi, riaccorgersi di sé, trovare soluzioni per risalire. E così molti e molte hanno fatto.

In opposizione e compensazione alla caduta, alcuni e alcune giovani hanno incontrato nel loro immaginario scale, principalmente immaginate come qualcosa da salire, da vedere dal basso, immaginando la fatica di doverle affrontare, assaporando il gusto dell’impresa, della scalata. Anche in queste immagini convivevano paura del nuovo e dell’irraggiungibile e il desiderio di scoperta e avventura.

Ancora, sono state espresse narrazioni di scenari sottili, pervasi da nebbia e colorazioni bianche, nere e grigiastre, affini al sottotono emotivo del momento e che rievocavano stati di incertezza e di indeterminatezza, collocata tra la realtà e l’irrealtà. Qui le forme vecchie non si distinguevano più, andavano via via scomparendo, lasciando il posto a quelle nuove non ancora nitide e chiare, le quali fanno respirare aria di mutamento e fanno da preludio alla pienezza della manifestazione successiva. 

Poi c’è anche chi nelle immagini ricerca e ritrova nuovi significati e nuove occasioni, incontrando e creando bivi, viottoli secondari, strade sotterranee, che fanno paura, ma che offrono anche nuove possibilità. Tra le strade del possibile troviamo anche labirinti, spirali e forme ouroboriche, che intrecciano le coscienze tra il sentirsi intrappolati e il sogno della liberazione.

Infine, sono state raccolte frequentemente apparizioni e creazioni coscienti di lanterne o fiaccole, a portare luce e consentire la visione, il movimento, il procedere lento, ma più sicuro. Invece, tra gli animali che hanno guidato maggiormente la ripresa, ci sono state spesso  tigri sicure, solitarie e ruggenti o comunque animali possenti, regali.

Scegliamo di non dare qui alcuna interpretazione del materiale simbolico, in quanto troppo personale, troppo unico nel dispiegarsi di ogni storia di vita, ma evidentemente di portata archetipica.

 

UN VIAGGIO TRA LE IMMAGINI PANDEMICHE

Il nostro compito oggi potrebbe però essere quello di sciogliere il trauma partendo proprio da queste immagini, ponendole all’interno di una cornice e di una dimensione simbolica al tempo stesso creativa, costruttiva e sostenibile per la coscienza. Il simbolo può farsi così linguaggio terapeutico e canale di espressione e di integrazione; può essere il luogo in cui immergersi e fare un viaggio trasformativo che possa ricucire la ferita inflitta dall’urto tragico del reale.

Questo canale fatto di immagini può permetterci anche di sintonizzarci con quel grande numero, sempre in aumento, di giovani e giovanissimi che, in questo scenario drammatico, hanno manifestato condizioni di disagio psichico che, se non intercettate e riconosciute in tempo, potrebbero anche evolvere in vere proprie sindromi psicopatologiche in età adulta. Infatti, oggi la pandemia, sul piano psicologico, si sta esprimendo anche nei più giovani attraverso condizioni depressive e ansiose e con disturbi fobici e somatoformi; disturbi solitamente definiti minori, ma con un impatto sulla società e sull’individuo stesso comunque devastante, ad esempio in termini di mancata produttività e di allontanamento dalla vita sociale comunitaria, di aumento di casi di comorbidità e di tentati suicidi.

Gli stati affettivi emersi più frequentemente sono quelli di inquietudine, paura, angoscia, ansia, rabbia e irritabilità che, con viva forza, creano un movimento psichico potente per ricercare un interlocutore da cui essere ascoltati. Ma sono emersi anche disturbi del sonno, sensazioni di blocco, vuoto, solitudine, noia e disillusione; stati che occupano tutto lo spazio psichico sottraendo energia a buona parte di progetti costruttivi futuri. 

E’ stata riscontrata anche tanta confusione, destabilizzazione e precarietà, così come processi cognitivi disfunzionali (pensieri intrusivi, rimuginio e ruminazione) e, ancora, comportamenti e sintomi di regressione.

Per sostenere le famiglie nel difficile compito di accogliere le difficoltà comunicate dai propri figli, è stato necessario individuare quegli atteggiamenti e quelle modalità maggiormente efficaci da suggerire loro. I genitori, infatti, solo attraverso la coltivazione di un ascolto attivo, empatico e non giudicante e grazie alla vicinanza emotiva col proprio figlio, possono migliorare le loro capacità di contenimento. Come suggeriva Winnicott, questa capacità è di fondamentale importanza perché il genitore risulti ‘sufficientemente buono’ e in grado di riconoscere i propri limiti e difficoltà. Per dirla con Stern, i genitori dovrebbero ricercare con i loro figli uno stato di ‘sintonizzazione affettiva’.

Se è stato possibile offrire anche questo tipo di aiuto è stato anche perchè la crisi pandemica ci ha dato la preziosa possibilità di mettere in campo nuove visioni, nuovi strumenti e nuove alleanze, grazie all’interazione aperta tra svariate discipline. Questa viva collaborazione può solo migliorare il servizio offerto ai pazienti, i quali si sentiranno più capiti nel profondo e meno freddamente analizzati.

Questo è il nostro piccolo contributo nel disegno più grande dell’evolversi dell’opportunità di crescita e di scoperta, di riassestamento e di trasformazione di tempi, modi, routine e relazioni fornitaci dalla pandemia, dalla quale siamo ripartiti per creare nuovi modi di vivere una nuova quotidianità, anche nel tentativo di risanare tutte le ferite e le ammaccature emotive venutesi a creare. Ci è sembrato questo un buon modo anche per prendere di nuovo contatto con la speranza, il desiderio e la fiducia nella vita. Chissà, forse anche attraverso l’aiuto di tigri e lanterne.

 

RIASSUNTO:

Nel febbraio 2020 viene collocato l’inizio della pandemia in Italia. Il drammatico fenomeno ha raggiunto anche noi, rendendoci protagonisti di una questione che ha riguardato il mondo intero.

I cambiamenti a tutti livelli della nostra vita personale e sociale sono stati profondi e destabilizzanti. La catastrofe ha lasciato sconvolgimento e creato vuoti e profonde voragini, spazzato via certezze e cancellato abitudini.

È stato necessario rivoluzionare le proprie vite e per poter continuare a dialogare non solo con l’altro, ma anche con se stessi, c’è stato bisogno di ridefinire un nuovo linguaggio. Dovendo stare lontani e spesso purtroppo anche soli, un possibile nuovo linguaggio, anche curativo, è stato rintracciato nelle immagini. Immagini che venivano dall’inconscio, ma anche quelle nate dall’intenzionale riflessione; immagini capaci di proteggere e continuare a nutrire la propria anima e immagini utili a razionalizzare la concreta realtà.

In questo drammatico periodo, dalle cui brutture nessuno era esente, tante sono le immagini che hanno accomunato e costellato l’inconscio dei nostri pazienti, così come il nostro. Esplorare questo materiale ci ha effettivamente permesso di sintonizzarci, contattare e comprendere la sofferenza propria e altrui, facendoci alleati di questi nuovi strumenti di natura psichica per tornare a orientarsi nella vita e a guardarla con fiducia.

 

BIOGRAFIA DOTT.SSA SILVIA CASTELLI:

Silvia Castelli, Psicologa Psicoterapeuta Psicanalitica, specializzata presso la scuola AION di Bologna e successivamente presso la scuola di Psicanalisi Infantile Cipssia di Roma. E’ docente presso la Scuola di Formazione di Pet Therapy Relazionale Integrata in Interventi Assistiti con gli Animali e fa parte da più di 10 anni dell’èquipe multidisciplinare del Centro Armonico Terapeutico di Campogalliano (MO). Svolge la libera professione portando avanti percorsi di psicoterapia, soprattutto con bambini, adolescenti, giovani adulti, genitori e famiglie.

BIOGRAFIA DOTT.SSA ELENA TSOUTSIS:

Elena Tsoutsis, Psicologa Clinica a orientamento psicodinamico laureata presso l’Università di Firenze, DanzaMovimentoTerapeuta diplomata presso la Scuola Centro studi Danza di Firenze e Psicoterapeuta in Formazione presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Analitica AION di Bologna. Ha lavorato in ambito scolastico per l’infanzia e attualmente collabora con il Centro Armonico Terapeutico di Campogalliano (MO), presta servizio nel settore delle comunità ad alta autonomia per adulti e figura tra le autrici del Blog di Divulgazione Scientifica Gnōthi Sautón.

 

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